Ma in Italia c’è qualcuno che sa fare il suo mestiere?

Tra le vergogne del nostro paese:
lo scoop a ogni costo!

di Rossella Bufano

La vicenda di Costa Concordia ha saturato tutti i canali televisivi. Seguirli è stato interessante per avere conferma di un’altra verità terribile: se c’è chi sembra non saper fare il capitano, c’è anche chi sembra non saper fare il giornalista. Fermo restando che la responsabilità del capitano è altissima, non se ne può più dei processi sommari della televisione italiana fatti da programmi sedicenti giornalistici.

Secondo la norma marinara, nota anche in letteratura, non sembra vero che un capitano abbia lasciato la nave prima dei passeggeri, che abbia tardato a ordinare l’evacuazione. Ma proprio perché non sembra vero, andrebbe indagato se il comandante è un incosciente italiano e per giunta meridionale (quasi c’era da aspettarselo!) e se invece non entrino in gioco altri fattori e altri attori. Ma queste sono cose che possono essere chiarite dall’inchiesta giudiziaria. I giornalisti prendono atto dei fatti e li fanno conoscere. Ma almeno questo lo sanno fare?

L’intervista ai protagonisti deve seguire a una seria documentazione, per riscontrare cosa c’è stato di irregolare, quali punti sono oscuri e vanno sottoposti all’attenzione dell’opinione pubblica. Possiamo assistere a fior di trasmissioni – noi comuni mortali che una crociera non l’abbiamo mai fatta e non conosciamo assolutamente nulla di quel mondo – e assistere impressionati a fior di giornalisti che sgranano gli occhi quando sentono che davanti alle scialuppe c’erano cuochi e filippini? Indignarsi e condannare, di fronte a una simile rivelazione, viene automatico. E che bravi questi giornalisti che ci fanno scoprire a poche ore dal naufragio queste nefandezze. Solo che, dopo diverse trasmissioni, quando la gente dell’equipaggio rimasta fino alle fine delle operazioni di salvataggio ha alzato la propria voce indignata, si scopre qualcosa di diverso! Grazie a loro, sempre noi ignoranti di crociere, navi e operazioni di salvataggio (ma ignoranti anche i giornalisti che vengono pagati per sapere e far sapere), abbiamo scoperto che alle operazioni di ammainamento delle scialuppe sono istruiti tutti i componenti dell’equipaggio, cuochi e filippini inclusi. E prima di intervistare i superstiti, questi giornalisti non sapevano documentarsi sulle prassi? Era loro dovere farlo, affinché le testimonianze servissero veramente a fare luce sulle vicende, conoscendo ciò che andava fatto e ciò che non andava fatto. Alle responsabilità del capitano, dell’equipaggio che non avrebbero saputo gestire il panico e il salvataggio, dovremmo aggiungere quelle dell’informazione che ha alimentato il rancore con la sua ignoranza.

Troppo facile fare giornalismo in questo modo, con la scusa di far parlare i fatti, si chiama un gruppo di persone, superstiti, qualche comandante e si impianta una trasmissione. E stendiamo un velo pietoso sui parassiti (dopo quelli del cane e della società della pubblicità progresso) della comunicazione: gli opinionisti. Tutti sappiamo alzare alta la voce dell’indignazione. Ma quanti sappiamo appoggiarla sulla conoscenza dei fatti e sulla competenza della materia che andiamo a trattare? Per non parlare dei presentatori/presentatrici che ingenuamente scoprono in trasmissione che quello degli inchini delle navi a ridosso delle coste è consuetudine, dopo che la notizia è stata già data in altre trasmissioni! Ma lo staff che sta dietro a questi personaggi sa o non sa documentarsi sulle prassi di una nave e su quello che è stato detto nelle trasmissioni, perlomeno, della stessa azienda?
E accanto alla gravità di quanto è accaduto, alle responsabilità che si vanno accertando, al dolore per le vite tranciate, al trauma e alle perdite dei superstiti, dobbiamo aggiungere la vergogna di un‘informazione che oggi è sempre più scoop, opinione, aula di tribunale, show capace di soddisfare quel bisogno tutto italiano di sentirsi con la coscienza a posto dopo aver trovato il capro espiatorio da impalare. E chi se ne frega se le responsabilità sono tante? Se la verità è molto più complessa? E non dimentichiamo che solitamente i crocifissi italiani, dopo dieci anni, diventano martiri. E anche in questo fenomeno l’informazione ha le sue responsabilità.

Forse si dovrebbe tornare a distinguere il giornalismo e l’informazione dal fare show e opinione.
Analizzando le tecniche della manipolazione dei mass-media di Noam Chomsky, Aurelio Calumuneri scrive su ComuniClab.it, magazine del dipartimento di Comunicazione della Sapienza:

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«Quella che più si potrebbe applicare a certi casi di cronaca o di attualità nostrana è la tecnica di usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione critica e costruttiva, con il risultato di «provocare un corto circuito dell’analisi razionale; impiantare desideri, paure e timori, compulsioni.
La più dannosa è la strategia volta a mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità, fino a stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità, come per fare accettare la stupidità, la superficialità, la volgarità e l’incapacità; ma questo è più il caso di certi altri salotti di intrattenimento travestiti da programmi di informazione.
[…]la televisione è il medium più adatto a proporre gusti e status, oltre che a promuovere la costruzione del senso comune condiviso, l’informazione è il principale strumento attraverso cui avvengono queste trasformazioni.
[…]davvero il sistema mediatico italiano tende a distorcere in maniera così subdola il processo produttivo dell’informazione e della comunicazione, o è più una risposta ai gusti del pubblico per le vicende personali e private della gente, per il gossip e per l’orrore, a far muovere in questa direzione i media generalisti? chi influenza chi?
Forse non ci si chiede mai fino in fondo, al di là delle più tradizionali teorie di agenda setting, cosa sia più utile per l’utente, cosa sia necessario conoscere di una data vicenda, e fino a che punto dietro il diritto/dovere di cronaca non si nasconda la perenne corsa ai picchi di ascoltatori, o di lettori. Ma il problema vero è se a porsi queste domande siano almeno i cittadini, o la maggior parte di essi».

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