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70 anni fa in Italiail diritto di voto alle donne
Subito dopo l’Unità, il «diritto di voto delle donne fu uno dei temi più dibattuti e controversi affrontati dal Parlamento italiano, vero punto nodale dell’emancipazione femminile». Il percorso verso l’agognato suffragio fu piuttosto arduo e troppo spesso ostacolato. Solo dopo numerosi anni di lotte, di proposte di legge, di istanze alla donna fu riconosciuto quanto richiesto. Così, il 1° febbraio del 1945 la Gazzetta Ufficiale pubblicò il decreto legislativo numero 23 che estendeva alle donne il diritto di voto. |
Dai documenti dell’epoca si deduce che le ragioni della negazione del diritto di voto alle donne sia riconducibile a due cause principali: la preoccupazione che il voto femminile fosse indirizzato verso i cattolici, o che le donne stesse potessero essere elette, e l’atavica opinione secondo cui il gentil sesso era considerato non intelligente o maturo abbastanza per usare il voto in maniera coscienziosa.
Sarà grazie all’accordo tra De Gasperi e Togliatti, due Ministri del Gabinetto del secondo governo Bonomi, la proposta di concedere il suffragio femminile diventò realtà, anche se con dei limiti (erano escluse le prostitute «schedate “che esercitano il meretricio fuori dei locali autorizzati”», norma abrogata nel 1947). L’articolo che stabilì la parità dei cittadini senza distinzione di sesso, sgretolò, anche se lentamente, gli ostacoli che impedivano l’accesso della donna alle funzioni pubbliche e al lavoro in generale.
Sulla stampa, a parte qualche eccezione, il suffragio universale ebbe scarsa eco, accettato come un dato scontato, considerato il notevole contributo femminile alla stabilità economica, sociale e familiare del paese durante e dopo le guerre. Tuttavia, «il resto del Carlino» pubblicò con risalto la notizia, in senso dispregiativo, affermando che «mentre si muore di fame, ci si preoccupa del voto alle donne».
La chiamata alle urne per le figlie di Eva del 2 giugno 1946 è solo l’ultima tappa del lungo e tortuoso percorso verso l’acquisizione del diritto politico da parte delle donne italiane, in ritardo rispetto agli altri paesi, europei e non. Da notare, inoltre, che le donne in Lombardia e Toscana possedevano tale diritto e ne furono private dallo Stato unitario.
Morelli e l’indifferenza del neo governo italiano
I primi passi verso un nuovo pensiero sulla condizione della donna furono mossi dal patriota, politico e scrittore, Salvatore Morelli, il quale, dalle carceri borboniche – nelle quali trascorse dieci anni della sua vita, tra torture e denigrazioni di ogni genere – formulò le idee che compongono il suo volume, pubblicato nel 1861, “La donna e la scienza o la soluzione del problema”.
Il libro, tuttavia, non ebbe la risonanza che meritava, per varie ragioni, prime fra tutte la chiusura mentale degli intellettuali italiani e la poca conoscenza della nostra lingua all’estero. Morelli fu il primo teorico dell’emancipazione femminile (anche se tale ruolo a livello internazionale fu riconosciuto a John Stuart Mill) e fu il primo a scrivere un’opera nella quale mostrava la propria considerazione per il sesso femminile che, in quanto individuo, necessitava del riconoscimento di diritti e dignità.
Secondo il politico la donna doveva «svolgere tre missioni fondamentali per la famiglia, per la società e per lo Stato: mettere al mondo gli esseri umani, educarli e ispirare l’uomo nel corso di tutta la sua vita». Funzioni a cui non poteva attendere senza istruzione ed educazione «adeguate» e se non avesse goduto dei diritti che l’avrebbero resa «pienamente e dignitosamente membro della famiglia e del consorzio civile», «ma per essere creatrice di riscatto e di progresso la donna deve essere liberata dalla schiavitù economica, morale e intellettuale nella quale è umiliata e abbrutita». Morelli era convinto che l’inferiorità delle donne, elemento chiamato in causa spesso per evitare di concedere loro il voto, dipendesse dalla «cattiva organizzazione sociale e politica» e che solo una donna ben istruita avrebbe potuto crescere un figlio migliore e, di conseguenza, migliore sarebbe stata la società.
In linea con le proprie idee e partendo dal fondamento su cui si basava la comunità, cioè la madre, il passo principale da compiere era restituire rispetto e specificità al gentil sesso così, nel 1866, richiese il voto per le donne e, l’anno successivo, la parità nell’ambito familiare, perché se priva di patria potestà e soggetta al marito, difficilmente avrebbe potuto reclamare, ottenendoli, diritti al di fuori delle mura domestiche.
Nel corso della sua attività parlamentare Morelli, convinto delle profonde ingiustizie rivolte alle donne del tempo, che vivevano in un “rapporto di schiavitù” nei confronti degli uomini, presentò numerosi, importanti e innovatori progetti di legge e, sebbene la maggior parte di essi non furono presi in considerazione, nel 1877 il provvedimento sul riconoscimento alla donne della facoltà di testimoniare negli atti pubblici e privati fu approvato. L’allora Ministro di Grazia e Giustizia Mancini si dichiarò favorevole e il progetto diventò legge. Un piccolo, seppur importante, passo avanti per «ottenere la personalità giuridica».
Il disinteresse parlamentare continua
All’opera di Morelli si affianca l’altrettanto infaticabile attività di Anna Maria Mozzoni, lombarda, «risorgimentale, repubblicana e mazziniana», considerata l’antesignana dell’emancipazione italiana. Nel 1864 scrisse “La donna e i suoi rapporti sociali”, considerata «l’opera italiana più completa e convinta per la rivendicazione dei diritti femminili di tutto l’Ottocento».
La Mozzoni chiedeva per le donne il diritto all’istruzione, la parità con i cittadini, i diritti elettorali, il diritto a svolgere qualsiasi lavoro, la cittadinanza anche senza matrimonio e l’equilibrio tra i coniugi, che comprendeva una lunga serie di istanze che ponevano rimedio a svantaggi ed esclusioni che avevano caratterizzato l’esistenza delle donne. Tutto ciò affinché queste trascorressero una vita dignitosa e indipendente, considerando che istruzione, educazione e libertà erano le condizioni necessarie per avviare qualsiasi tipo di attività. Molte delle idee della Mozzoni sono oggi considerate avanguardistiche: propose, infatti, un fondo di mutuo soccorso e fece risaltare i problemi di molestie sul luogo di lavoro.
“La donna e i suoi rapporti sociali” fu pubblicato durante i lavori del Codice Civile italiano, che fino al 1863, affondava le sue radici nel diritto romano. Questo poneva le donne sotto la tutela maschile e le escludeva da cariche e onori, in uno stato di completa sottomissione all’uomo e di relegazione a occupazioni esclusivamente domestiche. A livello storico è importante la relazione, «presentata con il progetto del Codice Civile dello Stato unitario al Senato del Regno nel 1863», del Ministro di Giustizia Pisanelli, in quanto accennava alle «problematiche dell’epoca nei confronti della famiglia e della condizione giuridica della donna».
Tuttavia, benché molte argomentazioni del relatore non furono prese in considerazione, palesarono una sorta di atmosfera di cambiamento, una corrente più moderna e originale. Ad esempio, ponendo a 21 anni il raggiungimento della maggiore età anche per la donna, cadde la necessità del consenso paterno per le nozze. In ogni caso, secondo il Codice Civile italiano la donna rimase sostanzialmente in una situazione di discriminazione.
Nel 1877 Anna Maria Mozzoni presentò una petizione affinché il diritto di voto fosse esteso alle donne, spinta dall’entusiasmo politico di Depretis, che, però, salito al potere, non rispettò le promesse. La Mozzoni dedicò l’intera esistenza alla lotta per l’emancipazione, non solo usando la penna, ma anche partecipando attivamente alla vita politica del tempo. Avvicinatasi dapprima al socialismo, se ne allontanò e, nel 1902, fondò l’Alleanza femminile, associazione apartitica a favore del riscatto della donna.
Nonostante i fallimenti, non desistette e con Maria Montessori, nel 1906, portò al Parlamento, «sede istituzionale nella quale bisogna[va] operare», un’ennesima petizione per ottenere il suffragio femminile. Non raggiunse i risultati sperati, tuttavia la sua perseveranza e quella di Morelli iniziarono a smuovere le acque e portarono, quanto meno, al dibattito. Prima di morire, assistette all’abolizione dell’autorizzazione maritale (del 1919), magra consolazione per chi, come lei, aveva affrontato «delusioni, difficoltà, rifiuti, convinta sempre di avere ragione nel rivendicare il riscatto di metà della popolazione e contribuendo agli ideali […], a mantenere vivo il problema dell’emancipazione della donna nella storia politica del nostro Paese».
Altre discussioni parlamentari
Nel 1888 Clemente Corte propose un emendamento per concedere il voto amministrativo alle donne proprietarie. Accanto a lui difensori dei diritti femminili furono anche i senatori Alessandro Rossi e Jacopo Maleschott, il quale prese la parola dinanzi al Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Francesco Crispi in difesa del gentil sesso.
La debolezza e l’incoerenza del discorso furono utilizzate come argomentazioni per “stroncare” ogni possibilità e negare il voto alle donne. Crispi, dichiarò che la sacralità della donna era tale da impedirgli di «gettarla nel fuoco della pubblica amministrazione». Sotto le mentite spoglie del rispetto, rifiutò di concedere il voto solo perché ella «domina già abbastanza, e qualche volta anche troppo». Parole eloquenti che non necessitano di alcun commento. Così nel decreto regio del 1898 nell’articolo 22, si legge che «il diritto di voto è rifiutato totalmente agli analfabeti, agli interdetti e inabilitati, ai condannati per gravi delitti all’ergastolo, a coloro che vivono abitualmente di carità e alle donne».
La discussione in parlamento di ripresentò nel 1910 quando il deputato Gallini, cosciente della necessità di compiere un passo alla volta, richiese solamente il voto amministrativo, che nelle sue responsabilità, era molto vicino alle attitudini e alle attività femminili della quotidianità, per cui consone alle capacità delle donne. La richiesta venne negata. Così come, nel 1912 il Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giolitti, presentato il disegno di legge per modificare il testo unico delle legge comunale e provinciale, negò il suffragio femminile.
Tuttavia vi fu un «progresso non trascurabile» (?): dalla “denegazione della capacità elettorale” della donna, si passò alla “semplice non iscrizione nelle liste”. Nel 1915 il decreto regio riconfermò che le donne non potevano essere iscritte nelle liste elettorali e non potevano essere elette presso alcuni uffici che erano inseriti all’interno della legge stessa.
L’argomento viene ancora ripreso durante il periodo fascista. Già nel 1923 Mussolini presentò un disegno di legge per «l’ammissione delle donne al diritto elettorale amministrativo», dal momento che «nessuna ragione plausibile» poteva «escludere le donne». Naturalmente le aventi diritto dovevano possedere alcuni requisiti, che rientravano nella categorie della maturità (potevano votare solo a raggiungimento di 25 anni di età); del censo (dovevano essere iscritte nell’erario comunale) e dell’istruzione (dovevano avere almeno la III elementare). Erano incluse anche: le madri dei caduti di guerra, le donne in possesso delle medaglie al valor civile o croci al merito, le donne che esercitavano la patria potestà o la tutela.
Tale progetto, tuttavia, non fu approvato e conquistarono il diritto al voto amministrativo solo nel 1925, ma non fecero in tempo a usufruirne, perché nel ’26 alcune cariche importanti furono sostituite con i podestà. Mussolini, sebbene le motivazioni non furono altruistiche o dettate da una consapevolezza dell’ingiustizia subita nel corso dei secoli dalle donne, promulgò una serie di leggi per la tutela del lavoro femminile e minorile, con particolare attenzione nei confronti della maternità. Sempre nell’ottica delle difesa della razza e dell’aumento demografico.
Conclusione
Il 2 giugno 1946 per la prima volta si ebbe una votazione nazionale a suffragio universale maschile e femminile, passaggio determinante per la storia d’Italia nella definizione dei nuovi equilibri politici. Attraverso un referendum, gli Italiani furono chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica e a eleggere i membri dell’Assemblea Costituente, che ebbe il compito di “riscrivere” lo Stato. E proprio in virtù della presenza femminile all’interno della Costituente le donne riuscirono a frenare l’esclusione del loro sesso da pubblici uffici e cariche elettive e a smussare gli angoli di alcuni articoli, rendendoli confacenti alle esigenze femminili.
Approfondimenti
Bibliografia e sitografia
– Sarogni Emilia, “La donna italiana. Il lungo cammino verso i diritti 1861-1994”;
– http://www.raistoria.rai.it/articoli/le-donne-votano/11957/default.aspx.