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«[…] Rientrati a casa mi rimproverò di aver assecondato quel dire assurdo e di averlo reso ridicolo agli occhi dei più. Litigammo e ce ne dicemmo di tutti i colori, come mai era successo prima. La mattina seguente, Mirko, il mio collega, mi scrisse un messaggio per scusarsi, si era accorto anche lui che Ermes non era stato felice della sua battuta. Gli risposi che non doveva scusarsi e conoscevo bene il suo modo d’essere di sempre. Ermes andò nuovamente su tutte le furie, mi accusò ancora di renderlo ridicolo e stupido. |
Litigammo di nuovo e in preda alla rabbia che mai avevo visto in lui, si fece autore di un gesto grave inspiegabile in grado di rendere un uomo l’essere peggiore di questo mondo. Sento ancora la forza delle sue mani sulle mie braccia, che stringevano talmente forte fino quasi a bloccarmi il respiro. Mi bastò davvero poco per capire che quello che mai avrei immaginato era diventato la peggiore realtà in cui mi sarei mai trovata a vivere. I suoi occhi divennero come mai erano stati. Dopo solo pochi attimi mi riempì di scuse dicendomi di aver perso il controllo, e che non sarebbe mai più successa una cosa simile, qualcosa di cui nemmeno lui riusciva a comprendere il senso. Mi misi a piangere, provavo dolore nel corpo e nell’anima, ma lo perdonai. Da allora continuai a piangere e a perdonarlo. I segni sul mio corpo però divennero sempre più evidenti, la rabbia si innescava per ogni cosa e altrettante volte divenivo il bersaglio di quel sentire malato. Quello che per lungo tempo avevo creduto preludio del paradiso, divenne gradualmente il centro dell’inferno, il punto in cui le fiamme ardono alte e indomabili, laddove ogni cosa non ha speranza di esistere, divorata dal fuoco inestinguibile. E non solo per i segni che le sue mani e i suoi calci lasciavano sulla mia pelle, ma soprattutto per la sofferenza che ormai riempiva il cuore. Mi guardavo allo specchio piena di dolore scoprendomi sempre più fragile e incapace di andare via da quell’uomo e da quella vita che ormai si nutrivano ingordi di ogni mio respiro.
Una sera Ermes tornò a casa dal lavoro più stanco del solito, e preso dal suo impeto che muoveva ormai anche dalle cose più inutili, in seguito a un litigio banale per la luce rimasta accesa in cucina mi tirò un colpo sul viso talmente forte che persi i sensi. Mi risvegliai in ospedale col volto tumefatto, tinto di un nero talmente tetro che scaraventò fuori tutta la forza possibile per mettere fine a quel martirio. Ebbi la forza di denunciarlo, di denunciare colui che nonostante tutto, per lungo tempo avevo considerato essere il sole di ogni mio giorno.
Sono passati due anni ormai, trascorsi tra la presenza quotidiana dei miei genitori e le sedute dallo psicologo. Ho lasciato il lavoro, pian piano ho ricomposto i pezzi della mia vita provando a darle una forma nuova, sebbene i contorni si siano concessi con difficoltà a un disegno diverso, quasi inimmaginabile. Oggi mi guardo allo specchio e provo a riscoprirmi donna, riuscendo a intravvedere quel coraggio che per cinque lunghi anni della mia vita è rimasto silente, soppresso dai segni indelebili di un amore malato.
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(da V. Perrone, “Incroci e segnali”, in V. Perrone ,“Caffè i ghiaccio con latte di mandorla”, Edizioni Esperidi, 2015)