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La Carta de Logu e una donna al governo della Sardegna
di Sara Foti Sciavaliere È quasi del tutto ignorato che esiste un codice legislativo trecentesco in cui era previsto, tra l’altro, pene severissime per gli stupratori: si parla della Carta de Logu, promulgata dal giudice Mariano IV e rivisitata dal figlio maggiore Ugone III codificando il diritto sardo. Importante però furono gli aggiornamenti apportati dalla giudicessa Eleonora, o Elianora, d’Arborea.
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Gli Aragonesi estesero l’ambito territoriale di applicazione della Carta de Logu a quasi tutta l’isola. La normativa rimase in vigore per secoli, fino alla sostituzione col codice di Carlo Felice di Savoia (il 16 aprile 1827), ormai alle soglie del Risorgimento. Il significato simbolico che localmente è attribuito alla figura e alla reggenza di Eleonora è evidenziato dal fatto che il giudicato d’Arborea è stato l’ultimo Stato sardo autoctono a essere ceduto a regnanti esterni all’isola.
La vita della battagliera Eleoonora
Eleonora nacque a Molins de Rei (in Catalogna, regno d’Aragona), intorno al 1347, terzogenita di Mariano IV dei Bas-Serra e dalla nobile catalana Timbora di Roccaberti, figlia del visconte Dalmazio. Visse i primi anni della giovinezza ad Oristano e nel castello del Goceano. Quando nel 1347 morì il giudice Pietro III di Arborea senza discendenti, la Corona de Logu del giudicato – un’assemblea dei notabili, prelati, funzionari delle città e dei villaggi – elesse il padre di Eleonora Mariano IV, fratello dello scomparso.
Eleonora sposò prima del 1376 il quarantenne vedovo Brancaleone Doria, dell’influente casato genovese. Il suo matrimonio rientrava nel più generale disegno di un’alleanza tra gli Arborea ed i Doria, che già controllavano vasti territori della Sardegna in funzione antiaragonese. Eleonora si immise così, con rango paritario, nel gioco della politica europea.
In un aspro clima di crisi e di malcontento, nel 1383 Eleonora scrisse al re una relazione sulle condizioni della Sardegna e chiese che riconoscesse il proprio figlio Federico come legittimo successore del fratello Ugone, che intanto era succeduto al padre ed era stato poi assassinato. Inviò quindi il marito Brancaleone a trattare direttamente col sovrano. Al tempo stesso inviò una missiva alla regina, chiedendole di intercedere presso il consorte a favore del figlio affinché potesse porre fine al disordine che regnava nell’isola.
Eleonora intendeva riunire nelle mani del figlio quei due terzi della Sardegna che Ugone, prima della sua uccisione, aveva occupato. Questo disegno insospettì il re, che non ritenne conveniente avere una famiglia tanto potente nel suo regno, tanto più che non essendoci erede diretto maschio di Ugone, quei possedimenti, iuxta morem italicumi, avrebbero dovuto essere incamerati dal fisco. Brancaleone fu infatti trattenuto presso la corte, col pretesto di farlo rientrare in Sardegna non appena una flotta fosse stata allestita, ma effettivamente era divenuto un vero e proprio ostaggio, e strumento di pressione contro la giudicessa ribelle.
Eleonora tuttavia non si perse d’animo e confermò la sua politica di guerra: partì all’azione e non appena fece rientro ad Oristano, punì i congiurati e si autoproclamò giudicessa di Arborea secondo l’antico diritto regio sardo, per cui le donne potevano succedere al loro padre o fratello. La politica di Eleonora si riallacciò all’esperienza del padre, allontanandosi dal governo autoritario del fratello Ugone III, garantì la difesa della sovranità e dei confini territoriali del giudicato e attuò un’opera di riordino degli istituti giuridici locali, revisionando la Carta de Logu.
Eleonora non mostrò mai la visione assolutista del signore al vertice di un’oligarchia e lontano dalle ragioni del popolo, ma piuttosto quella di chi ritiene di avere la propria legittimazione alla propria sovranità per concessione del popolo. Dopo essere riuscita a completare il progetto del padre di riunire quasi tutta l’isola sotto il suo scettro di giudicessa reggente, tenendo in scacco e ricacciando in alcune fortezze sulla costa le truppe aragonesi, vide crollare il suo progetto in seguito a un’imprevedibile incognita della sorte: la peste, che consegnò senza combattere la Sardegna agli Aragonesi. Negli ultimi anni Eleonora si mise un po’ in disparte dalla politica attiva, lasciandola al marito e al giovane figlio Mariano V, che era succeduto al fratello Federico. Secondo la tradizione la giudicessa morì, intorno al 1404, forse di peste.
Gli aggiornamenti della Carta de Logu
Nella Carta vi è l’apertura alla modernità di alcune norme e la saggezza giuridica che contiene elementi della tradizione romano-canonica, di quella bizantina, della giurisprudenza bolognese e del pensiero dei glossatori della stessa cultura curiale catalana, soprattutto dell’elaborazione giuridica locale delle consuetudini sarde compiute dal diritto sardo di tipo municipale. Eleonora dimostrò con la sua reggenza di voler uscire dal Medioevo puntando anche sulla liberazione dei servi e di voler adibire alla propria lotta di tipo nazionale, oltre alle truppe mercenarie, quelle costituite dai suoi concittadini.
Questa raccolta di leggi era stata scritta in sardo volgare, in particolare nella variante arborense della lingua sarda, in modo che tutti potessero capirla appieno. Era diretta a disciplinare in modo organico alcuni settori della vita civile, comprende norme di codice civile e penale, oltre ad alcune norme che potrebbero costituire una sorta di codice rurale.
La Carta de Logu è considerata uno degli statuti più interessanti del Trecento. I suoi testi infatti mettono in evidenza situazioni, e corrispettivi istituti giuridici, ancor oggi di grande attualità, ad esempio la tutela e posizione della donna, ma anche la difesa del territorio, il problema dell’usura, tutti argomenti più volte ripresi nel testo.
Spesso i luoghi comuni ci rendono ignoranti, ci lasciano cullare nella convinzione che certe cose vadano in un determinato modo perché è stato sempre così, una forma mentis radicata in una passato di pregiudizi e insensibilità verso alcune problematiche, nel nostro caso ci riferisce alla violenza sulle donne. Lo si ritiene l’estremizzazione di un atteggiamento maschilista, di chi tutto può sul “sesso debole” in virtù di non si sa quale “superiorità”, un atteggiamento atavico ritenuto ingiustificabile e deprecabile solo in una recente presa di coscienza. La Carta de Logu è testimone invece di una coscienza consapevole già nel Trecento: gli abusi su una donna non sono, e non erano, accettabili, da lasciare passare sotto silenzio. Le donne potevano avere una voce per far valere i propri diritti e impugnando proprio la legge a loro favore.
Consultando la Carta de Logu si scopre infatti che le vittime di stupro erano in un certo senso tutelate (certo tale tutela era limitata purtroppo al solo “giudicato sardo” in cui era vigente tale normativa, ma non va comunque trascurato che esistesse una normativa sull’argomento). Il capitolo ventunesimo elenca, dunque, le pene previste per uno stupratore: una sanzione di cinquecento lire se la vittima è sposata; duecento per una nubile o una vergine. E se il malintenzionato si è “limitato” a introdursi con la forza in casa di una donna sposata, pur senza averla violentata – aggiunge il capitolo ventiduesimo -, dovrà pagare una sanzione di cento lire. Cifre non da poco per una società medievale, dove il valore di un cavallo da battaglia (bene prezioso per l’epoca) doveva aggirarsi intorno alle dieci lire, giusto per fornire un valore di paragone e farsi due conti sulla gravità della sanzione equo prezzo da scontare per la gravità del reato.
Nel caso, poi, la vittima fosse stata nubile o vergine – e non ancora promessa sposa -, lo stupratore era tenuto a sposarla, se (e solo se) la donna avesse acconsentito. In caso contrario, avrebbe dovuto fornirla di una dote e farla accasare secondo i suoi desideri, nel rispetto della sua condizione e del rango del futuro marito. Tutto questo nell’arco di quindici giorni, pena l’amputazione di un piede e, quindi, la relegazione a una condizione d’invalidità tale da segnarne irrimediabilmente la vita. La possibilità di riscattarsi con il pagamento di simili somme di denaro, infatti, doveva essere una strada praticabile solo dai più abbienti, il che documenta che anche nel Regno di Eleonora, gli strati più bassi della popolazione non godevano di grosse tutele. Naturalmente c’erano dei limiti anche in questa legge, per esempio lo stesso reato di stupro non sembra fosse perseguito nel caso le vittime fossero concubine e meretrici.
Di fatto, però, la regolamentazione dello stupro nella Carta de Logu merita di essere raccontata e in questo va reso merito alla giudicessa Eleonora d’Arborea, che fece risuonare la sua voce: parlando di certezza della pena e in tempi brevi, con l’obiettivo di togliere ai carnefici e dare alle vittime. Grazie agli aggiornamenti che volle introdurre nella Carta de Logu alle donne veniva riconosciuto un valore e la capacità di decidere, e quelle decisioni andavano per legge rispettate e tutelate.
Approfondimenti
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