di Frédéric Pascali
Nel 2015 fa la sua comparsa sulla rivista “Esquire” un pezzo toccante a firma del giornalista Matthew Teague. “The friend” è il titolo che campeggia in cima all’articolo. L’autore parla del suo migliore amico e di come abbia vissuto con lui la tragica vicenda della scomparsa della moglie Nicole a cui solo tre anni prima era stato diagnosticato un cancro, ben presto in grado di relegarla a malata terminale. La storia anni dopo diventa un film, disponibile su Amazon Prime Video, con la regia di Gabriela Cowpertwaite e la sceneggiatura di Brad Ingelsby.
Un dramma che impone la volontà di rappresentare il dolore nelle sue varie sfaccettature, tali da sovrastare le infrastrutture di relazione di tuttii protagonisti fino a renderli nudi di fronte alla disarmante realtà della condizione umana. Per giungereal punto in cui anche le parole diventano superflue e sono sufficienti uno sguardo e un lungo intenso abbraccio per confermare il legame indissolubile dell’amore e dell’amicizia.
Gli interpreti, tutti molto bravi, contribuiscono pienamente alla messa in scena dell’ampio ventaglio di sentimenti di cui è portatore “L’amico del cuore”. Dakota Johnson, Nicole, fornisce ancora una volta una prova di spessore agevolata dalla grande intesa artistica della coppia di amici Casey Affleck, Matthew, e Jason Segel, Dane, l’amico del cuore.
Il loro percorso di emancipazione verso il classico “nulla sarà più come prima” funziona benissimo e rivela il dietro le quinte del legame che si crea quando ci si trova a condividere gli aspetti più duri dell’esistenza.
Tuttavia, la scelta di dilatarlo con la continua alternanza del tempo filmico attornoalla terribile diagnosi della malattia di Nicole, supportato dall’incessante incedere della bella musica evocativa di Rob Simonsen, finisce per disperderne un po’ del suo patrimonio emotivo.
Il rollio che accompagna i movimenti molto classici della macchina da presa, con i suoi puntuali fuori fuoco, non fa che accentuare ulteriormente questa totale immersione catartica nell’angoscia della fine come preparazione di un nuovo inizio. Un infinito basculare sulla corda dell’esistenza che la ricercata fotografia di Joe Anderson non manca mai di sottolineare al meglio.